martedì 27 gennaio 2015

eudaimonia



     eudaimonìa

     che sia fiero che sia sciocco
     dice il maestro
     l’importante è sé stessi
     eppure me ne dimentico nel giorno
     poi la cagnara del giudizio
     quello che pensano loro
     l’inferno della porta accanto
              - sempre loro e mai io –
     il bon ton politically correct
     per non pestarsi i piedi
     per conformarsi al mondo
     questo che affonda

     stufo cedo al silenzio
     m’avvolge come ovatta
     e cicatrizza e piaghe e ferite
     le escoriazioni della vita
     non il contuso cervello
              - sia mai! –
     quello è sguincio per natura

     sennò perché avrei scritto?

venerdì 23 gennaio 2015

Note in margine a Numero Zero


Umberto Eco e il giornalismo disonesto. Questo mi sembra di rilevare dopo aver terminato la lettura di “Numero zero”. Confesso che mi ero fatto delle aspettative, come per ogni uscita tanto attesa da parte di una grande firma.
Il romanzo è scorrevole, asciutto, spesso scheletrico quando non approssimativo (qualche ripetizione, lunghe elencazione erudite, abili combinazioni di dati e curiosità). E’ vero che il nostro illustre autore ci ha abituati a ben altro, ma la sua ultima fatica, tutto sommato, si legge e anche in una manciata di ore. Certo, la vicenda è quasi inesistente, fluttuante in’approssimazione che appare quasi voluta. Tutto si svolge tra le quattro grigie mura di una sedicente redazione di un quotidiano che mai uscirà ma che risulterà utile alla realizzazione di maneggi e trame politiche, facili avanzamenti di posizione e carriera sulle spalle e ai danni dei soliti noti. I personaggi risultano scontati quando non un cliché ricorrente nella letteratura di consumo. Tranne qualche scena ambientata nei centralissimi bassifondi della Milano da bere (una via Bagnera che non starebbe male a White Chapel o nei sotterranei di Edimburgo), una visita nella scabrosa chiesa di san Bernardino alle Ossa e con l’ovvio richiamo alle terribili catacombe dei Cappuccini di Roma e Palermo, la narrazione mantiene una scialba unitù d’ambientazione. Della contorta e ‘italiana’ vicenda di Tangentopoli si tratta ben poco per lasciare spazio alla ripresa di teorie complottistiche ormai trite che vanno dalla morte di Mussolini o del suo sosia, alla strage di Piazza Fontana, Gladio, i tentati golpe, i servizi deviati, la solita onnipresente ombra della Cia con la sua longa manus. Un centone di ovvietà, come qualcuno ha sottolineato anche se, per andare oltre le critiche superficiali, quanto si legge, tra le righe di un romanzo probabilmente costruito ad arte con queste caratteristiche fuorvianti, emerge una sottile ma profonda critica al giornalismo dei nostri tempi. Se così fosse, ancora una volta Eco si dimostra un autentico maestro della scrittura, un autore capace di stupire anche quando dalla solita schiera di lettori onnivori viene condannato per sciatteria.
Credo non sia un caso che, nonostante i programmi editoriali, “Numero zero” sia uscito proprio immediatamente dopo l’attentato alla redazione parigina di Charlie Hebdo e successivamente la marea di libertarismo che il terribile atto terroristico ha smosso come uno tsunami mediatico. I social media ci hanno letteralmente sepolti con ogni possibile notizia, aggiornamento, reportage, dibattiti…nefandezze di ogni genere e specie, pubbliche e private, deliri privati e collettivi. Tutti sono stati Charlie Hebdo, per qualche frazione di secondo, e tutti, oggi sono altro, seguendo la ruota della casualità quotidiana. Le maggiori testate nazionali hanno scritto e pubblicato di tutto e di più sbandierando il vessillo della libertà di stampa. Ecco la questione e il collegamento con l’idea di fondo che, come ho sopra affermato, sostiene l’ultimo romanzo di Eco tenendo conto del fatto che i folli assassini di Parigi  mai avrebbero potuto sapere dell’uscita di “Numero zero” e magari poco della pubblicazione di quello del loro connazionale Huellebecq. Insomma, sotto le spoglie di un romanzo apparentemente scialbo, serpeggia la messa alla berlina della compromissione giornalistica italiana, di un asservimento che sembra non conoscere limiti e confini morali.
Perché non ammettere che nel bel paese non esiste libertà di stampa e che l’esercizio dell’onestà  dell’informazione non può essere costruita se non sul fondamento della verità. Che le maggiori testate giornalistiche siano clienti del potere anche un bambino lo riesce a capire almeno fino a quando non gli metteremo in mano uno smartphone per meglio spappolargli il cervello. Un regime necessita sempre di una compiacente prezzolata stampa di potere. Malgrado le belle facce dei direttori di quotidiani che sfilano impomatati sugli schermi televisivi per azzuffarsi col mondo intero, siamo lontani dalla libertà che permette, presso altri lidi, il prolificare di un giornalismo d’inchiesta che non risparmia a nessuno le dovute fondate critiche senza rischiare ostracismi e linciaggi quando non il piombo di qualche folle assoldato ad arte.
Nella redazione di Domani lavorano troppo poche persone e tutte provengono da esperienze disparate spesso macchiate dal peso del fallimento. L’atmosfera è dimessa anche se sul grigiore della normalità campeggia la figura del direttore Simei, un abile trafficone, una vecchia faina con intrallazzi di ogni genere alle spalle a sua volta servilmente sottoposto all’editore, il commendator Vimercate, una presenza aleggiante nell’etere. Evito facili paralleli e rimandi alla storia così come alla cronaca. Quello che conta è l’espediente. Il giornale non uscirà mai, ma servirò come trampolino di lancio per l’intraprendente ‘padrone’ affinché forzando alcune situazioni e manomettendo determinati equilibri possa venire ammesso nel salotto buono di chi conta e muove i fili della situazione. Ho poca esperienza di giornalismo e la mia conoscenza con l’editoria si limita ad una parentesi della mia vita da studente universitario quando lavorai come critico letterario e d’arte presso un bisettimanale d’informazione della mia città, ma fu sufficiente per capire come anche nel piccolo quelli che contavano erano e sono i rapporti clientelari, l’essere introdotti, avere in tasca le giuste tessere di partito. Il comandamento principale era quello di compiacere, incensare, servire biecamente coloro che avrebbero potuto un domani debitamente ricambiare. In una condizione come quella che vissi era pressoché impossibile fare carriera, sperare di venire assunti in redazione, vedere riconosciuta la propria professionalità con la conseguente iscrizione all’albo dei pubblicisti ambita  come un miraggio irraggiungibile. Compresi che la notizia non doveva per forza e sempre coincidere con la verità e che della famose regola della ‘quattro W’ non fregava pressoché niente per nessuno. Basti per comprendere che, in barba alle aspettative di noi giovani praticanti, un bel giorno venne assunta come redattrice una signora che fino al giorno prima aveva fatto la casalinga, ma che era moglie di un noto piccolo imprenditore nonché ormai attempato rampante.
Per arrivare al dunque. Sono convinto, e questo mettendo da parte ogni pretesa critica e di lettura narratologica, che Eco sia riuscito assai bene nel suo intento. L’operazione che ha condotto, l’ha architettata con estrema finezza evitando facili allusioni, nomi, rimandi diretti, colpi bassi, frecciate velenose. La scelta temporale di retrodatare la trama è interessante visto che dallo scempio di Tangentopoli ben poco è cambiato quando non peggiorato. A cosa è ridotta l’editoria italiana, e non solo quella giornalistica, è risaputo. Tutto dipende dalle logiche di mercato, l’imperativo è quello di stare a galla a qualsiasi prezzo per questo non stupisce il pattume che viene pubblicato e le lobbies di ogni genere che vengono soddisfatte. Il risultato è ovvio, per pochi purtroppo. Il livello di sottocultura è spaventoso e ancora più spaventoso il nulla che viene impiegato per riempire questa immane voragine. Il danno è che sono sempre troppi coloro che rimangono triturati da questo immane tritacarne di legittime umane aspettative. Colpiti d’accordo! Ma affondati?

P.S. Non dimentichiamo che Eco è  un uomo di profonda cultura, potente quanto basta per rimanere protetto entro l’empireo di quegli intellettuali  ritenuti intoccabili perché danno lustro al grigiore di un  sistema bieco e ignorante. 

venerdì 9 gennaio 2015

Divenire

        
           Non riconosco più il mondo. Non mi sento annebbiato, no. Non ho pranzato innaffiando le portate con vino in eccesso. Ammetto di concedermi qualche bicchiere talvolta indugiando anche se non cado mai nell'ebbrezza. La moderazione avviene come se avessi un limite naturale che scatta, una barriera che si alza  per evitarmi cadute nell’abbruttimento che solo l’uso smodato di alcol provoca.
         Ferma! Questo non centra niente con quanto stavo scrivendo. Il mondo non lo riconosco più veramente anzi, lo rifiuto intromettendo della violenza verbale estrema tra il sé che vorrei preservare dal contagio e quanto considero estraneo ad ogni mia personale volontà. Mi stupisce la violenza che mi provoca l’esteriore come l’interiore perché, anche se a molti benpensanti non piace, il mondo ci pervade dentro, dove prende forma, e fuori. La ribellione è forte fino al punto che arriverei a fare a pezzi chiunque mi si trovasse davanti nei momenti topici.
         Poi tutto scivola nella pace dell’abbandono laddove stempera ogni ebbrezza per lasciare che tutto si chiarisca mentre l’orizzonte torna sereno. Tutto accade come nel rapimento della bella stagione per giungere a comprendere che ogni albero degno di questo nome produrrà frutti secondo il tempo prestabilito.

         Il mondo torno a riconoscerlo per quello che è attraverso tutto quello che accade. Capisco che il problema non è di rifiutare più o meno una situazione, ma cercare di osservare la giusta distanza, quella che varia a secondo delle condizioni e dunque delle cose che avvengono.