sabato 28 novembre 2015

Una prece




Sono qui, seduto
un frammento di Zibaldone
come breviario per l’esistere
preso una goccia al giorno
per rendermi immune
alla disperazione

Sono le prime parole
che butto giù, queste,
come se la malattia fosse
una minaccia ostinata

Ostinato è il ritmo
assurdo, il tambureggiare
del tempo che la morte
ci vuole imporre,
ma non devo credere
d’essere nato per questo.

venerdì 19 giugno 2015

Errori dell'Illuminismo?


Forse, l’errore più grave che molti vogliono imputare a questo complesso movimento fu quello di avere insegnato a pensare liberamente.
Certo, non tutto quanto l’Illuminismo ha prodotto e determinato è esente da critiche, ma dove il buono primeggia, perché non tornare a meditarci sopra?
Oggi è il problema della tolleranza a pesare. Siamo sopraffatti dall’intolleranza  al punto di armare schiere di ruspe per spianare tutto e tutti.
Prendo come esempio Lessing. Secondo il pensatore tedesco il valore di una persona non dipende solo ed esclusivamente dal fatto che le sue credenze siano  vere o meno, ma dall’entità degli sforzi che quella persona ha compiuto per raggiungere la verità (e non dobbiamo dimenticare l’assunto che esiste una gerarchia delle verità alla quale appellarsi).
Ecco una traccia interessante riguardo la posizione di Lessing:

‘Se Dio tenesse racchiusa nella sua mano destra ogni verità e nella sua mano sinistra, invece, stringesse soltanto la sempre desta tensione verso la verità – quand’anche questa fosse accompagnata dal corollario che io debba, perciò. Sempre e in eterno errare – e mi dicesse: “Scegli!”, allora io, con umiltà, gli afferrerei la mano sinistra esclamando: “Padre, dammi questa! La pura verità spetta comunque a te solo e soltanto!”

Siamo davanti all'errore del relativismo?
Non credo proprio. L’errore che si vuole imputare è quello del primato della coscienza e della conseguente libertà che ne viene generata. Errore per coloro che vogliono esercitare un controllo totale sulla vita degli altri. Ma leva per scalzare la superstizione del potere per chi ha imparato a mettere la ragione nelle relazioni che intrecciano quotidianità.

lunedì 15 giugno 2015

Ci vuole coraggio per negare quello che gli altri affermano nel sentire comune. Questo per sostenere che non basta essere in maggioranza per avere sempre ragione. Se mi riconosco ragionevole devo imparare a trovare l'onestà di ammettere quando ho torto.

domenica 15 marzo 2015

davanti a un bar


Una sera di sempre
quelle scordate di noia
con le solite baracche
per non dare sospetto.
Vedo persone agitarsi
nell’abitudine ombrosa

di stelle pendenti (dentro,
al bancone un cinese indaffarato
asciuga bicchieri fumanti vapore).
La grammatica del consueto
ha pagine sciupate di nulla,
(il peso d’una ignobile sciatteria)

sarà per questo scandalo,               
abominio della desolazione,
che ancora non ho a memoria
le equazioni interiori (codificare
costa tempo e la conta occorre).
Lo ammetto: la scaltrezza

dell’essere sfuma nel torpore
di qualche birra gelata.
Gli altri sono ancora in piedi
(da parte mia attendo).
Questa è una sera di sempre
di quelle scordate di noia.


mercoledì 11 marzo 2015

Sulla (presunta) bontà dei poeti


Chissà per quale arcana ragione nell’immaginario collettivo il poeta viene sempre visto come una persona totalmente fuori dagli schemi del conformismo sociale. Spesso li si considera dei buoni, visto che il loro strambo lavoro li conduce a trafficare con le passioni, i sentimenti, le emozioni al punto che, anche quando scendono nei recessi del profondo per scoprire le più turpi perversioni, tutto viene risolto nell’ovatta del sogno, come se sognare fosse un passatempo occasionale e non una dimensione che la nostra mente abita a tutti gli effetti.

“Ma dai! E’ un poeta”, si sente dire e poi via che scatta il solito risolino spesso accompagnato da espressioni di compatimento come se tutto il lavorio poetico, che non esclude il cammino nella sofferenza, altro non sia che una perdita di tempo. E anche quando il poeta scade nell’eccesso e transita per la sua stagione all’inferno, il trattamento rimane  analogo: “Ma è un poeta! Cosa ci dovremmo aspettare da un perdigiorno. Poveraccio! Nessuno gli ha mai detto che la poesia fa male?” Così, il passo che separa la bontà dalla stupidità o dall’abisso della demenza, si restringe terribilmente al punto che ogni caduta rimane inevitabile. La bontà assume le tinte della follia, della possessione, dell’eccesso per arrivare a scoprire che l’esser buoni, in questo mondo, viene visto come il marchio della diversità, il sigillo dell’emarginazione.

Ebbene, in barba al pensiero comune, il sottoscritto non si sente per nessuna ragione buono. I poeti non sanno essere buoni e soprattutto non devono esserlo con questo mondo. La bontà non è di casa nelle nostre contrade. Basta osservarsi attorno senza troppe cerimonie. Talvolta, proprio per sfuggire alla catastrofe del quotidiano, il poeta si ritrova ad essere un abilissimo fingitore, come Pessoa, perché non ragiona con il cervello ma con l’immaginazione e attraverso questo filtro scorge l’assurdo del girare in tondo al quale ogni destino umano sembra essere condannato. Nel pensiero comune uno che scopre l’inganno e te lo sbatte sul grugno non potrà mai essere considerato un buono. Il buono, sempre nel pensiero comune, è quello che ti da la pacca sulla spalla, che ti ascolta contrito, che si comporta come il cordialone di turno, che paga il conto al bar…

E se il fingere fosse una copertura? Insomma: visto che quando scopri il funzionamento della macchina rischi che i ben pensanti ti facciano subito la pelle perché potrai fare tutto, anche della poesia, ma non avvertire che l’inganno è montato nel meccanismo e che per buona pace di una logica che assume svariate caratteristiche, nessuno deve andare a scomporre, cosa gli rimane da fare?

L’unica possibilità è il cammino dentro, quello che ti implica la rinuncia e il distacco proprio per evitare di rimanere impigliati nelle maglie del sistema. Ecco, allora, la vera questione: il poeta deve essere assolutamente libero. Un verso riuscito è un granello di libertà conquistata. Allora, dopo le dovute comprensioni, un uomo libero, un poeta, si scoprirà buono perché tollerante nei confronti dell’altrui libertà, anche quella di rimanere impigliati nelle reti dell’uccellatore. 

martedì 10 marzo 2015

tristia

Un cielo di rami brulli
il cemento dell’ipocrisia
per un marzo che spinge
verso una bugiarda stagione

in ere passate la primavera
era forza d’amore
leggerezza di fanciulle

E’ tempo di versare vino
nuovo in otri vecchi
sembrano dire in troppi
poi bestemmiano allo spreco

dopo giunsero i barbari
l’amore perì nella violenza
e le fanciulle scomparvero

La terra avvampa di veleno
e ingordigia, per la fretta
ho giocato male le carte
dissipato gli ori preziosi

le fanciulle si son fatte
donne controvoglia
hanno ceduto all’amore

Fracasserò chiunque verrà
a dirmi che alla primavera
quest’anno infelice
non seguirà l’estate

le fanciulle torneranno,
forse,nel caldo accenderanno
passioni sui sassi del fiume

Gli ipocriti, senza saperlo,
scriveranno sul cemento
la censura sotto un cielo
di rami brulli di passione


martedì 3 marzo 2015

Laudi del tempo ordinario


LAUDA PRIMA


1
            Nulla ha senso, sembrano dire i poeti pazzi di naufragio e allora giù che strimpellano filippiche contro l’universo mondo, la cancrena sociale, la ruggine delle ossa fradice di metanolo. La grande mescita è cominciata da tempo, ma le botti sono marce e per riempirle non bastano più gli inganni dei bottegai.

2
            Per non pensare al peggio metto fine ad ogni controversa elucubrazione e lavo la tazzina del caffè (panta rei in questa domenica mattina). Scopro che dentro non c’è il fondo, quello che le comari prese dalla mania aruspicina banfano di saper leggere. Dentro l’acqua scivola fredda tra le dita. Sorrido pensando alla fuggevolezza del liquido che scorre. Il solito poeta ci leggerebbe la metafora della vita che sfugge intonando il peana antico che conduca alla fottitura della noia. Io no. Ho smesso da tempo di fare l’aruspice casalingo con pentole, casseruola e avanzi bisunti come mappe da decrittare.

3
            Vivo la condanna di chi vuol ghermire l’attimo benedicendo la vergine custode di tanta sfida. Quello che conta è il gesto, il retrogusto del caffè, il piacere della domenica altro che tristezza e noia che recheran le ore. Domani sarà tardi. Il caffè avrà il sapore d’una broda incolore. Certo tu sarai ancora qui, pitonessa con gli occhi sigillati dal sonno, materializzi lari e penati oltre le spire vaporose del the…come si scivola lontano quando un biscotto tira l’altro. Il resto sono rotismi da rigattieri.

4
            Si sa che l’uomo vende quello che non possiede…






sabato 28 febbraio 2015

streben


streben

E’ una condanna, quella di scrivere
e non sai mai se saranno rime
oppure l’accartocciarsi di prose.
Quello che pesa è che palpitano
mentre affogo nel nulla oscuro
di un’inattività disarmante.

Poi tutto sdrucciola e mastico rabbia
che d’improvviso trapassa, magari colpa
d’un sorriso o se schiaccio lo sterco
che m’ingrassa i passi stanchi:
so che le piaghe del viandante infiammano
bendate con stracci lisi di passione.

Se non fosse per lo streben della vita
che affligge, il languore del vino forte,
da un pezzo mi sarei concesso
all’oblio osceno della morte:
il fatto è che i cieli narrano, l’uomo
depenna e io, talvolta, insulto.

lunedì 16 febbraio 2015

generazione digitale


è l’inganno di avatar
che non hanno brama
di scendere quando
in alto s’ingabbia
il destino umano
torme di barbari

sono i ragazzi
d’un Brasile virtuale
nella follia senile
mia e d’altri spaesati
ingegneria sociale
spicciola per manipolare
coscienze

mi dicono della scienza
nuova loro troppo
vecchi per l’aria pura
nudi d’emozioni
vittime di sentimenti
e passioni violate
dall’atroce poetica

di grandi pornografi
storie strafatte
d’ignoranza gualcita
come pagine di storia
purgata per larghe
intese di regime

basta poco
per non sentire
un clic e ti banno
chiudo l’amplesso
senza capire
che decreto un decesso

due punto zero
tanto non soffro
la patologia è altro
per loro
per noi l’imbroglio
scoperto…chissà!


mercoledì 11 febbraio 2015

...ex silentio...



mondo brutale
nido di violenza
non ci sono più strade

il vento dell’ipocrisia
crudele ha divelto
ogni segnavia di pace

mi rimane la forza dei passi:
oltre non trovo e posseggo
se non una misura di speranza

martedì 27 gennaio 2015

eudaimonia



     eudaimonìa

     che sia fiero che sia sciocco
     dice il maestro
     l’importante è sé stessi
     eppure me ne dimentico nel giorno
     poi la cagnara del giudizio
     quello che pensano loro
     l’inferno della porta accanto
              - sempre loro e mai io –
     il bon ton politically correct
     per non pestarsi i piedi
     per conformarsi al mondo
     questo che affonda

     stufo cedo al silenzio
     m’avvolge come ovatta
     e cicatrizza e piaghe e ferite
     le escoriazioni della vita
     non il contuso cervello
              - sia mai! –
     quello è sguincio per natura

     sennò perché avrei scritto?

venerdì 23 gennaio 2015

Note in margine a Numero Zero


Umberto Eco e il giornalismo disonesto. Questo mi sembra di rilevare dopo aver terminato la lettura di “Numero zero”. Confesso che mi ero fatto delle aspettative, come per ogni uscita tanto attesa da parte di una grande firma.
Il romanzo è scorrevole, asciutto, spesso scheletrico quando non approssimativo (qualche ripetizione, lunghe elencazione erudite, abili combinazioni di dati e curiosità). E’ vero che il nostro illustre autore ci ha abituati a ben altro, ma la sua ultima fatica, tutto sommato, si legge e anche in una manciata di ore. Certo, la vicenda è quasi inesistente, fluttuante in’approssimazione che appare quasi voluta. Tutto si svolge tra le quattro grigie mura di una sedicente redazione di un quotidiano che mai uscirà ma che risulterà utile alla realizzazione di maneggi e trame politiche, facili avanzamenti di posizione e carriera sulle spalle e ai danni dei soliti noti. I personaggi risultano scontati quando non un cliché ricorrente nella letteratura di consumo. Tranne qualche scena ambientata nei centralissimi bassifondi della Milano da bere (una via Bagnera che non starebbe male a White Chapel o nei sotterranei di Edimburgo), una visita nella scabrosa chiesa di san Bernardino alle Ossa e con l’ovvio richiamo alle terribili catacombe dei Cappuccini di Roma e Palermo, la narrazione mantiene una scialba unitù d’ambientazione. Della contorta e ‘italiana’ vicenda di Tangentopoli si tratta ben poco per lasciare spazio alla ripresa di teorie complottistiche ormai trite che vanno dalla morte di Mussolini o del suo sosia, alla strage di Piazza Fontana, Gladio, i tentati golpe, i servizi deviati, la solita onnipresente ombra della Cia con la sua longa manus. Un centone di ovvietà, come qualcuno ha sottolineato anche se, per andare oltre le critiche superficiali, quanto si legge, tra le righe di un romanzo probabilmente costruito ad arte con queste caratteristiche fuorvianti, emerge una sottile ma profonda critica al giornalismo dei nostri tempi. Se così fosse, ancora una volta Eco si dimostra un autentico maestro della scrittura, un autore capace di stupire anche quando dalla solita schiera di lettori onnivori viene condannato per sciatteria.
Credo non sia un caso che, nonostante i programmi editoriali, “Numero zero” sia uscito proprio immediatamente dopo l’attentato alla redazione parigina di Charlie Hebdo e successivamente la marea di libertarismo che il terribile atto terroristico ha smosso come uno tsunami mediatico. I social media ci hanno letteralmente sepolti con ogni possibile notizia, aggiornamento, reportage, dibattiti…nefandezze di ogni genere e specie, pubbliche e private, deliri privati e collettivi. Tutti sono stati Charlie Hebdo, per qualche frazione di secondo, e tutti, oggi sono altro, seguendo la ruota della casualità quotidiana. Le maggiori testate nazionali hanno scritto e pubblicato di tutto e di più sbandierando il vessillo della libertà di stampa. Ecco la questione e il collegamento con l’idea di fondo che, come ho sopra affermato, sostiene l’ultimo romanzo di Eco tenendo conto del fatto che i folli assassini di Parigi  mai avrebbero potuto sapere dell’uscita di “Numero zero” e magari poco della pubblicazione di quello del loro connazionale Huellebecq. Insomma, sotto le spoglie di un romanzo apparentemente scialbo, serpeggia la messa alla berlina della compromissione giornalistica italiana, di un asservimento che sembra non conoscere limiti e confini morali.
Perché non ammettere che nel bel paese non esiste libertà di stampa e che l’esercizio dell’onestà  dell’informazione non può essere costruita se non sul fondamento della verità. Che le maggiori testate giornalistiche siano clienti del potere anche un bambino lo riesce a capire almeno fino a quando non gli metteremo in mano uno smartphone per meglio spappolargli il cervello. Un regime necessita sempre di una compiacente prezzolata stampa di potere. Malgrado le belle facce dei direttori di quotidiani che sfilano impomatati sugli schermi televisivi per azzuffarsi col mondo intero, siamo lontani dalla libertà che permette, presso altri lidi, il prolificare di un giornalismo d’inchiesta che non risparmia a nessuno le dovute fondate critiche senza rischiare ostracismi e linciaggi quando non il piombo di qualche folle assoldato ad arte.
Nella redazione di Domani lavorano troppo poche persone e tutte provengono da esperienze disparate spesso macchiate dal peso del fallimento. L’atmosfera è dimessa anche se sul grigiore della normalità campeggia la figura del direttore Simei, un abile trafficone, una vecchia faina con intrallazzi di ogni genere alle spalle a sua volta servilmente sottoposto all’editore, il commendator Vimercate, una presenza aleggiante nell’etere. Evito facili paralleli e rimandi alla storia così come alla cronaca. Quello che conta è l’espediente. Il giornale non uscirà mai, ma servirò come trampolino di lancio per l’intraprendente ‘padrone’ affinché forzando alcune situazioni e manomettendo determinati equilibri possa venire ammesso nel salotto buono di chi conta e muove i fili della situazione. Ho poca esperienza di giornalismo e la mia conoscenza con l’editoria si limita ad una parentesi della mia vita da studente universitario quando lavorai come critico letterario e d’arte presso un bisettimanale d’informazione della mia città, ma fu sufficiente per capire come anche nel piccolo quelli che contavano erano e sono i rapporti clientelari, l’essere introdotti, avere in tasca le giuste tessere di partito. Il comandamento principale era quello di compiacere, incensare, servire biecamente coloro che avrebbero potuto un domani debitamente ricambiare. In una condizione come quella che vissi era pressoché impossibile fare carriera, sperare di venire assunti in redazione, vedere riconosciuta la propria professionalità con la conseguente iscrizione all’albo dei pubblicisti ambita  come un miraggio irraggiungibile. Compresi che la notizia non doveva per forza e sempre coincidere con la verità e che della famose regola della ‘quattro W’ non fregava pressoché niente per nessuno. Basti per comprendere che, in barba alle aspettative di noi giovani praticanti, un bel giorno venne assunta come redattrice una signora che fino al giorno prima aveva fatto la casalinga, ma che era moglie di un noto piccolo imprenditore nonché ormai attempato rampante.
Per arrivare al dunque. Sono convinto, e questo mettendo da parte ogni pretesa critica e di lettura narratologica, che Eco sia riuscito assai bene nel suo intento. L’operazione che ha condotto, l’ha architettata con estrema finezza evitando facili allusioni, nomi, rimandi diretti, colpi bassi, frecciate velenose. La scelta temporale di retrodatare la trama è interessante visto che dallo scempio di Tangentopoli ben poco è cambiato quando non peggiorato. A cosa è ridotta l’editoria italiana, e non solo quella giornalistica, è risaputo. Tutto dipende dalle logiche di mercato, l’imperativo è quello di stare a galla a qualsiasi prezzo per questo non stupisce il pattume che viene pubblicato e le lobbies di ogni genere che vengono soddisfatte. Il risultato è ovvio, per pochi purtroppo. Il livello di sottocultura è spaventoso e ancora più spaventoso il nulla che viene impiegato per riempire questa immane voragine. Il danno è che sono sempre troppi coloro che rimangono triturati da questo immane tritacarne di legittime umane aspettative. Colpiti d’accordo! Ma affondati?

P.S. Non dimentichiamo che Eco è  un uomo di profonda cultura, potente quanto basta per rimanere protetto entro l’empireo di quegli intellettuali  ritenuti intoccabili perché danno lustro al grigiore di un  sistema bieco e ignorante. 

venerdì 9 gennaio 2015

Divenire

        
           Non riconosco più il mondo. Non mi sento annebbiato, no. Non ho pranzato innaffiando le portate con vino in eccesso. Ammetto di concedermi qualche bicchiere talvolta indugiando anche se non cado mai nell'ebbrezza. La moderazione avviene come se avessi un limite naturale che scatta, una barriera che si alza  per evitarmi cadute nell’abbruttimento che solo l’uso smodato di alcol provoca.
         Ferma! Questo non centra niente con quanto stavo scrivendo. Il mondo non lo riconosco più veramente anzi, lo rifiuto intromettendo della violenza verbale estrema tra il sé che vorrei preservare dal contagio e quanto considero estraneo ad ogni mia personale volontà. Mi stupisce la violenza che mi provoca l’esteriore come l’interiore perché, anche se a molti benpensanti non piace, il mondo ci pervade dentro, dove prende forma, e fuori. La ribellione è forte fino al punto che arriverei a fare a pezzi chiunque mi si trovasse davanti nei momenti topici.
         Poi tutto scivola nella pace dell’abbandono laddove stempera ogni ebbrezza per lasciare che tutto si chiarisca mentre l’orizzonte torna sereno. Tutto accade come nel rapimento della bella stagione per giungere a comprendere che ogni albero degno di questo nome produrrà frutti secondo il tempo prestabilito.

         Il mondo torno a riconoscerlo per quello che è attraverso tutto quello che accade. Capisco che il problema non è di rifiutare più o meno una situazione, ma cercare di osservare la giusta distanza, quella che varia a secondo delle condizioni e dunque delle cose che avvengono.