domenica 26 maggio 2013

Piccola fenomenologia di Montalbano

Immagine dal web
         Mi sono scaricato praticamente tutti gli episodi di Montalbano, ma chissà perché, quando tento di vederne uno, non arrivo mai alla fine senza cadere in un sonno profondo.
         Cosciente dell’azione piratesca, mi beo di possedere pressoché tutto quanto prodotto per la televisione da riguardare quando non ne posso fare a meno.
         Perché Montalbano? Chiede mio figlio notando con quanto zelo ricerco gli episodi che mancano.
         Non so…Mi piace!
         Solo per questo?
         Non basta?
         Vorresti essere come lui?
         In che senso?
         Bello e pelato! Sai che spaccano quelli col cranio rasato?
         Ma cosa dici?
         Hanno il pisello grosso!
         Lo caccio stanco delle sue sparate, domandandomi come mai a diciotto anni compiuti non riesce a mettere un pizzico di sale in quella zucca bacata. E’ bravo, a scuola, d’accordo. In troppi me lo fanno notare. Studia, a differenza dello stuolo di fancazzisti che c’ha attorno, ma in casa…Con la sorella è sempre una lotta a coltello. Con noi genitori quando va bene, una questione dietro l’altra fino. Quando va male, liti durante le quali se ne esce con una filippica di bestemmie da fare paura. Forse in quei momenti vorrei essere Montalbano e rifilargli due cartoni per farlo tacere.
         Già, perché Montalbano? La sua domanda non è poi così fuori luogo. Qualche romanzo me lo sono letto anche se ho dovuto non poco litigare con la lingua di Camilleri. La fiction è diversa. Oltre a sentire vedi e le idee che ti sono rimaste ingarbugliate, si chiariscono tra in colori della bella Sicilia.
         Comunque, non so quale arcano mi lega a questo personaggio. Saranno i modi rudi e sbrigativi, il fascino degli incontri femminili che fa, l’esotismo…Bella questa! Da amante strenuo della mitteleuropa quale sono, mi rendo conto di vivere una contraddizione da non ridere. Austria felix…Sicilia? Devo ammettere che dopo aver letto Tomasi di Lampedusa, mi sono trovato davanti ad un autore europeo, malgrado l’isolamento che lo scrittore visse pressoché per tutta la vita. La dimensione umana e intellettuale spesso trascende gli angusti limiti del mondo che ci siamo costruiti attorno. Ero ancora al liceo, quando incontrai “Il gattopardo”: ormai è storia patria.
         Forse il motivo rimane dettato dall’attrazione per quanto radicalmente diverso. Sarà, ma non mi convince. In Sicilia fa caldo anche d’inverno, per i miei parametri meteorologici. Vogliamo mettere con le Alpi? Dai! E poi il cibo…Un attimo! Proprio settimana scorsa mi sono comprato una scatoletta di alici alla siciliana per emulare Montalbano e la sua passione per il pesce cucinato in tutti i modi.
         Questa è roba da uomini? chiede mio figlio, mentre ceniamo.
         E’ da due giorni che fa il filo alle tue alici, dice mia moglie.
         Allora? Rimbrotto seccato dalla scoperta.
         Apritele e mangiatele, conclude lei con tono pontificale. Facile. Non lo so spiegare, ma di certi cibi sono geloso oltre che goloso. Potrei capire si fosse trattato di una porzione pregiata di bettelmatt o un introvabile tocchetto di pian du stich, o magari qualche pecorino particolarmente raro, quelle chicche che ti vende solo Moroni a Novara…No! Una confezione di alici alla siciliana con erbette tritate e gonfie d’olio extravergine acquistate al supermercato con invereconda facezia. Il meglio, per un montanaro impenitente che ama i salumi tosti, la polenta alla vigezzina (quella con uovo e pancetta), i vini corposi come il Prunet. Montalbano si cala bicchieri di Corvo bianco. Quando lo fa, sento la saliva schiumarmi in bocca. Qualche giorno me ne comprerò una bottiglia per vedere che effetto provoca tracannarselo freddo di frigo. Il guaio è che mia moglie non beve quasi più niente e fuori dal terrazzo di casa mia non risacca il mare nella notte.
         In fine apro la scatoletta e mi degusto il contenuto con mio figlio. Una goduria, non ai livelli di una buona bagna càuda, ma di tutto rispetto. Piccanti quanto basta. Sapide.
         Ecco quello che succede quando cedi alla tentazione di lasciarti prendere troppo da un fortunato personaggio televisivo. L’emulazione è sempre in agguato alla mia porta.
         Allora, papà…perché proprio Montalbano? E’ tornato a chiedere mio figlio con la sua insistenza tardo adolescenziale.
         Lo guardo togliendo gli occhi dallo schermo dove mi sto sparando uno dei tanti episodi scaricati. Devo rispondere per forza? Chiedo a me stesso.
         Non lo so! Dico poco convinto dell’allocuzione scelta.

         Vedo che ti piace davvero!

lunedì 20 maggio 2013

Public Breakfast

immagine dal web


         Che tristezza, mi dico, fare la colazione all’Ipercoop!
         Non amo andare al supermercato, figuriamoci alla domenica mattina e per di più di corsa, perché a casa qualcuno ti aspetta per la colazione e ti sei accorto che manca il the, quello che piace, nero e di commercio equo. Poi c’è la carta igienica finita malgrado i mille e più strappi conclamati dalle becere réclame, quelle che ti bombardano e ci mettono pure Dante con la sua Commedia. E da non dimenticare il cibo per il “bastardo” che, malgrado la piccola taglia, mangia con la voracità di un piragna senza nessun senso di sazietà. Divora di tutto e non solo le briciole che cadono dalla tavola.
         La consegna mi tocca. Nemmeno le 9 e sono già al posteggio, relativamente pieno. Il sole è caldo, dopo le giornate fredde di pioggia, l’aria vaporosa. Troppa luce, per questo guardo alle montagne per vedere se già un nuovo fronte di maltempo minaccia la giornata di festa.
         Chiudo la macchina. Entro e zac! La fila davanti alla cassa del bar. Il rumore è quello tipico del mattino: tazzine, cucchiaini, posate, sorseggi e mandibole sganascianti krapfen è dolciumi che intonano la cacofonia della colazione.  Tutti belli che pronti se non già intenti al rito mattutino, armati di carrello per fiondarsi, col sapore dell’espresso in bocca, a fare le doverose compere settimanali tra isole dei freschi, corsie degli scatolami e pesce decongelato che ancora dovrebbe odorare di mare e paranze.
         Sfuggo, perché ho voglia di metterci il minor tempo possibile. Già il notare che una sola delle 15 casse è aperta e l’attesa si potrebbe presentare pruriginosa, mi mette in allarme.
         Entro. Cerco e prendo quanto mi serve senza troppe cerimonie per guadagnare il prima possibile la via dell’uscita. Mentre giro come  una scheggia per i reparti con la coda dell’occhio, m’accorgo che una seconda cassa apre. Dunque, più veloce della luce ad arraffare il the e via al pagamento.
         Nemmeno dieci minuti! Penso. Ripasso davanti al bar. Colazione pubblica, sotto gli occhi dell’universo mondo che transita consegnandosi alle fauci del commercio. Questi sono i nuovi templi. Le chiese secolarizzate del consumo, malgrado la crisi che monta e il mare magnum della disperazione postmoderna, l’opportunità di beneficiare sempre dell’acquisto con orari d’apertura sempre più dilatati.
         La colazione al bar…Non l’ho mai fatta. Mi mette tristezza pensare di bermi un cappuccio nell’anonimato, su freddi tavolini. Passi per quelle che consumi negli alberghi, dove la ricchezza del buffet consola e spesso i camerieri ti coccolano per convenzione. Ricordo le colazioni che consumammo a Mondaye, quando sostammo ospiti dell’Abbazia di san Norberto. Il grande salone secentesco con l’enorme camino di pietra. Il caffè bollente, lungo, ma buono. Le baguettes croccanti di forno, tiepide col burro da spalmare e quel clima atlantico, gelido pure a giugno.
         Piuttosto che il bar, la cucina di casa. L’acqua messa a scaldare. Il profumo del caffè che sale e che amo prepararmi da solo. La scelta del companatico. La tranquillità del proprio rifugio, mentre fuori il sole sorge e la luce avanza. Il canto degli uccelli. Un momento di religioso raccoglimento prima della giornata da affrontare. Qui nessuno ti spintona per scegliere quale bombolone o cornetto accompagnare al cappuccio. Cento volte meglio il pane che mi faccio tostare sul grill elettrico e che divido col mio “bastardo” scodinzolante, che la moscia sensazione di precarietà che le tazzine vuote incutono, una volta abbandonate alla mercè della lavapiatti.

sabato 11 maggio 2013

Quando non ci sei



Sei a casa tranquillo dopo la mattinata di scuola, dove ti hanno frastornato in ogni modo. Inutile spendere filippiche sulle classi che peggiorano di anno in anno: è una realtà che denota una lenta inesorabile destrutturazione sociale. La cosa che ci preoccupa, prima ancora dei disastri didattici, è il fatto che un domani ormai prossimo, saremo in mano a queste generazioni. Non si può generalizzare, certo. Qualche anima pia ancora la si ritrova nella suburra urlante che ogni giorno affronta la giornata scolastica. Mosche bianche. Agnelli tra i lupi…L’importante è riuscire ad educarli alla giusto candore combinato con una sufficiente scaltrezza per evitare i danni che il mondo di fuori arreca senza troppe cerimonie.
Basta con la scuola della quale sempre scrivo per deformazione professionale. La questione è un’altra e di ben differente spessore. Sei in casa. Mi sono fermato qui.
 Fuori maggio sbuffa i primi caldi, quelli che ti mettono fuori fase. Poltrona. Lettura di una rivista specialistica dedicata a sette e nuovi movimenti religiosi. La testa duole lievemente a causa dell’allergia che mi tormenta. Sento i vapori di uno stato di intontimento strano. Cedo, non so perché. Così, dopo aver letto un  articolo mi si picchia nella zucca che devo andare a prendere mia moglie che termina le sue lezioni alle 16 e 30. Parto come un treno. Con un caldo da forno arrivo a Trecate, posteggio e aspetto. Mia moglie non arriva. Il sudore mi imperla la fronte. Passa un quarto d’ora e la processione di bambini e genitori sgocciola. Provo a spiegarmi il perché del ritardo. Uno qualsiasi: una chiamata in segreteria, qualche mamma particolarmente ostica che ti blinda con le sue solite menate. Mezz’ora. Niente. Ormai sudo copiosamente. Mi sento avvolto in un’atmosfera densa e surreale. Poi l’illuminazione! Mia moglie terminerà alle 18 e 30 perché ha il famigerato interclasse. Ecco cosa accade quando non ci sei. Rivolto a me, naturalmente, fermo come un bamba ad aspettare chi uscirà dopo due ore. E pensare che ce lo siamo vicendevolmente ricordato.
         Quando non ci sei…No! Non si tratta del solito refrain che diventerà il tormentone dell’estate alle porte. “Quando non ci sei” in senso puramente esistenziale, una condizione che si può cogliere con un minimo di esercizio e non altrettanto facilmente mutare.
         Quella condizione che ti fa compiere azioni assurde per le quali non riesci a spiegarti le motivazioni, se ne esistono.
         Un momento! Il sottoscritto ha ricevuto una formazione filosofica solida. Perché, allora, scrivo che non si trovano motivazioni per l’agire nella totale inconsapevolezza, dato che di questo si parla. Semplificando. Perché ammetto che, alla fine dei conti, per tutto non si può avere una spiegazione plausibile se non provabile? Tanto varrebbe dire di avere incontrato un tritone o sirenide, al posto della sua femmina sempre ambita e sognata.
         Tutto non si può spiegare. Un bel dilemma anche se si ricorre alla discesa negli inferi dell’inconscio, per assistere all’eterna lotta tra es ed ego fino a quando non si intromette quel super che pretende sempre di avere l’ultima parola e di fare il controllore.
         Il problema è molto più semplice di quanto vorrebbe farci intravedere la nostra mente, spesso responsabile di ogni deragliare verso le paludi del non esserci. E poi, cosa dire di qualche possibile agente esterno che come compito ha quello di rovesciare ogni volta la scacchiera quando ti stai illudendo di poter vincere la partita con qualche azzardata mossa. Lasciamo da parte ogni puzzo di zolfo, ripensando al protomedico Tadino, il quale disse che il diavolo è troppo sottile e che ogni sua denunciata presenza non è null’altro che la risultante della nostra stupida voglia di vederlo all’opera. Forse aveva proprio ragione, ma così tornerei a smarrirmi nei fumi dell’inconscio e lì i mostri non si risparmiano, acquattati nelle selve interiori.
         Mi sono dimenticato dell’appello alla semplificazione! Quando non ci sei basta un bottone strappato alla giacca per finire a Bagg a sonà l’òrghen! M’è successo questa mattina alla prima ora. Togliendo la tracolla dalla spalla, la cinghia s’è portata dietro il bottone della spallina. Subito ho pensato alla figura da sfigato. L’amor proprio ferito che si spande per un bottone. Poi l’immaginazione sullo scorno che s’assomma a tutti gli scorni degli ultimi giorni. Due più due che non fa sempre quattro e quel ribollire dentro che t’annebbia portandoti via il poco rimasto dopo una notte difficile. Quanto basta per sclerare, direbbe il solito perfezionista che pretende d’essere impeccabile anche dopo una giornata di miniera.
         Ferma un po’! In fondo mi s’è staccato un bottone. Meno ancora di un piatto di lenticchie. La miseria conclamata, si dovrebbe ammettere. Un bottone si riattacca con ago e filo. Bastano cinque minuti di pazienza e la spallina torna come nuova. Ma la mia vita, quando non ci sono? In quale putrido recesso la vado a gettare?
         Una bella pedalata fino a Baggio per provare! Questo mi rimane…quando non ci sono.
        
         

venerdì 3 maggio 2013

Il bandolo della matassa


Entra un tizio veloce e in retromarcia e mi sbatte contro uno dei pilastri del cancello.
La botta è forte e in una frazione di secondo, come si dice, ti ritrovi bello che stordito e ci vuole un attimo prima che t’accorgi che quello che ti ha pesantemente speronato è un camion frigo dell’Eismann.
Cosa strana: non mi incazzo. Scendo e guardo il retro sfondato della mia Mercedes, il fanale in frantumi e la portiera di destra con dentro lo spigolo del pilastro grattugiato dall’impatto.
Il tizio scende. Mi viene vicino e dice con candore:
- Non mi sono accorto che lei stesse uscendo dal suo cancello.
Chissà perché non lo rimprovero duramente. Ne sarei pienamente in diritto. Sono come disincarnato dalla situazione che sto vivendo. Stento ancora a capacitarmi mentre penso alla lezione che avrei dovuto tenere quel pomeriggio in facoltà e che sfuma via come un miraggio malgrado le mie buone aspettative.
Ci vuole un attimo prima che riesca a rinvenire il bandolo della matassa che s’è srotolata attorno alle due e trenta di un qualsiasi e insulso giovedì. Cosa ho scritto? Una giornata può essere insulsa? Credo proprio di sì, perché al mattino anziché poter fare scuola mi sono dovuto sorbire l’incontro con la Croce Rossa, utile certo, ma una terribile perdita di tempo quando l’anno scolastico si trova ormai agli sgoccioli e già cominci ad assaporare la voglia di liberarti da orari e impegni funzionali all’insegnamento. Il risultato è un leggero mal di testa perché non sopporto il sole e il pizzicore dei pollini comincia a farsi sentire.
Un momento! Sono ancora con il tizio dell’Eismann. Ci sediamo sotto al gazebo che ho montato proprio ieri, primo maggio. Costatazione amichevole. Dati. Assicurazioni, patenti. Lui che mi racconta degli altri incidenti che gli sono successi sempre entrando in retromarcia in vicoli privati e chiusi come il mio. Una storia di tutti i giorni. Capita, tra un pacco di patatine fritte e una confezione di gelati al cioccolato. Certo è che se mi avesse preso un metro solo più avanti, sarei finito all’ospedale e non so in quali condizioni. Tutto perché non mi ha visto e manovrando all’indietro guardava solo nello specchietto alla sua sinistra. Cose del genere, capitano troppo spesso!
Poi arriva il carrozziere, accerta il danno e non crede al tizio dell’Eismann quando gli racconta che stava entrando adagio. Intanto l’auto non riparte. Queste meraviglie della tecnologia tedesca con chissà quante centraline e computer di bordo, quando s’inchiodano non si riaccendono nemmeno se le attacchi ad un traino di muli.
Da parte mia me ne rimango li a guardarli mentre tentano il possibile per riavviare il motore e ritirare il povero mezzo incidentato nel cortile di casa. Mi sento strano. Leggero. Non posso dire assente, ma invischiato in una dimensione ovattata dove sembra impossibile scadere nell’ira funesta del pelide Achille. A cosa servirebbe poi, dato che il tizio, che scopro chiamarsi Stefano come mio fratello, s’è dimostrato disponibile nell’ammettere la sua colpa e detestarla?
Intanto la mia auto ridotta a mal partito non riparte. Tutto gira, tutto s’accende, navigatore pure, ma il motore non accenna a nulla, solo un sussultare desolato del motorino di avviamento.
Comincio a sentire la sconsolazione montare, mentre tutti parlano e si perdono in mille considerazioni. Prima il carrozziere chiama la concessionaria Mercedes di Novara dove gli dicono che solo loro sono in grado di eseguire diagnostiche del sistema accurate. Per evitare costi simili a fucilate, ricorriamo al mio elettrauto di fiducia. Lui, dopo essere arrivato, con qualche abile manovra, capisce tutto. L’intoppo è dovuto al fusibile della pompa del gasolio che s’è bruciato a causa dell’impatto. Una volta sostituito, il motore riparte. Unico particolare: un iniettore che sfiata.
Tutto sembra finito. L’auto è accesa. Devo solo portarla dal carrozziere al resto penseranno le assicurazioni. Il tizio dell’Eismann, Stefano, è da un ora fermo col suo camion in mezzo al mio vicolo. Mi segue mentre controllo le fotocellule del portone.
- Mi dispiace di averle rovinato la giornata! – Dice mentre risistemo la mascherina ad uno dei sensori. Mi alzo e lo guardo. Poi dico:
- Mi ha rovinato la macchina, non la giornata.
- Mi dispiace, - aggiunge prima di ripartire per il suo consueto giro di vendite alle  sue clienti tra le quali c’è mia suocera.

Uno scorno. Un terribile scorno, per fare il verso alla poesia. Ci vuole un’ora prima che riesca a realizzare l’entità del pericolo che ho corso. Questo avviene quando recupero il bandolo della matassa dell’esistenza.
Sono andato a riprendere mia moglie a scuola usando l’auto di mio suocero. Lei intuisce subito qualcosa quando mi vede salutarla dal finestrino della Ipsilon grigia del padre.
Mentre le racconto l’accaduto, sento la precarietà dell’esserci salire dal profondo. Un metro e mi avrebbe colpito con lo spigolo posteriore del cassone frigo conciandomi per le feste. Questo è il significato della stranezza che mi ha assalito fino dai secondi dopo l’impatto. Così sarebbe finito il piccolo padreterno che troppe volte mi racconto di essere.
Non riesco a capire il perché, ma necessita tutta la sera affinché riesca a recuperare qualcosa, tenendo in mano il ritrovato bandolo della matassa. Riavvolgo la mia vita, lentamente, fino a quando è possibile, prima di addormentarmi chiedendomi quale senso possano assumere gli avvenimenti che ci accompagnano nell’economia della quotidianità.
Prima di cedere al sono, dalla televisione vengo a sapere che oggi è morto Max Catalano, il filosofo dell’ovvio amico di Renzo Arbore, quello che diceva che si vive meglio con due pensioni piuttosto che con una. Come avrebbe filosofato al mio posto?
Meglio avere la macchina da carrozziere che essere all’ospedale con la spalla fracassata e il viso coperto di tagli, e qualche lesione interna guaribile in una manciata di giorni.
E’ questo il bandolo della matassa?