venerdì 29 marzo 2013

...tempo perduto...


Perdere tempo. Cazzeggiare col pc. Ciabattare in pigiama per la casa senza avere in testa null’altro che un fastidioso tedio come strascico notturno. Fare domani quello che potrei fare oggi. Mi capita sempre più spesso. Non so se sarà colpa degli anni che passano, ma una stanchezza non buona mi costringe in uno stato di pigrizia insolito.
Non posso dire di fare nulla di nulla. No. Ma quello che faccio, lo faccio male. Così mi sembra.
Annoto qualche pensiero. Sbuccio versi insipidi sentendo dentro il vuoto del poeta che ha smarrito la sua ispirazione. Leggo tutto quello che mi capita a tiro, disordinato come un cuoco quando mangia (come sostengono i savànt del cibo).
Poi ci si mette l’uggia della Settimana Santa con le vacanze dalla scuola, i figli a casa, la voglia di partire per passare qualche giorno in montagna e…Imparare che non sono mai riuscito a fare niente senza cadere nella noia dell’insoddisfazione.  Capire come la meccanicità del quotidiano mi mette in crisi d’astinenza rispetto alla routine dell’esistenza. Rimangono le sganasciate imposte dagli sbadigli, quelli che segnano la caduta nella topica dello spleen. Sarà questo il male di vivere? Senza troppe cerimonie, lo ridico: vivere fa male, è per stomaci forti, per intestini abituati a digerire i rugginosi chiodi della realtà.
Non si può vivere senza mai cercare di esserci almeno una volta! So che potrebbe venire letta come una sparata, questa frase, ma sfiora la verità, quella dimensione dove le giustificazioni, anche quando buone e legittime, non contano più nulla. Quanto è vero è vero in barba al fatto che mi possa piacere o fare comodo più o meno.

mercoledì 27 marzo 2013

In quel tempo...

immagine dal web


“In quel tempo Mosè scelse tre città oltre il Giordano, a oriente, perché servissero di asilo all’omicida…” (Dt 42 e ss.)

Mosè scelse tre città rifugio per gli assassini. Tre città oltre il Giordano, sempre più a oriente, laddove il sole torna al mattino e la speranza indugia dopo le angosce della notte.
Non ho mai odiato nessuno fino alla morte, se ci penso bene. Ho odiato per fare del male, immaginando chissà quale violenza per cazzottare un viso e renderlo una maschera sfigurata. Pugni fino a spellarsi le nocche e mescolare il mio sangue con quello dell’uomo che avrei voluto castigare rompendogli il grugno.
Qualche faccia la ricordo. Uno che mi spinse dalle scale della tribuna allo stadio. Erano gli anni delle scuole elementari e i giorni dei Giochi della Gioventù. Erano i momenti per le imprese eroiche, quelle che avrebbero dovuto farmi cadere ai piedi le ragazzine delle quali mi sono sempre invaghito. Poi vennero gli occhi di mia moglie, ma questa è un’altra storia.
Quel tizio aveva una faccia da stupido. Uno di un’altra quinta. Non so perché mi spinse. Magari fu solo un caso. Forse incespicò sul cemento dei gradini consunti, ma l’odio che mi accecò fu tale che lo avrei massacrato. Lui, con quella faccia irritante. Il ghigno sardonico e gli occhi da ebete. Un volto che mi ha perseguitato spesso, nei sogni e negli incubi.
Un altro fu un certo Panizza. Uno che sotto la naja cercò di farmi subire il più bieco nonnismo. Lo avrei bastonato volentieri torcendogli le dita da topo che si ritrovava. Non lo feci. Mi limitai ad altre forme di vendetta, come abbandonarlo in autostrada al primo casello utile perché potesse raggiungere casa sua, in quel di Casale Monferrato, impiegandoci più tempo possibile. Un’uscita lontana quanto bastava perché si fottesse parte della licenza breve, un manciata di ore, alla ricerca di passaggi e mezzi vari. Era così stupido che non colse la sottigliezza e dopo poco venne congedato. Un uomo senza onore tra i troppi.
Oggi è un ricordo, ma le città rifugio  oltre il Giordano non mi fanno dimenticare che anch'io ho gustato, e talvolta ancora gusto, la feccia dell’odio. Si lo ammetto! Quello slavo che per anni è stato amministratore dei beni immobili della mia famiglia e che dalla morte di mio padre altro non ha fatto che succhiarci soldi in ogni modo. Un italianissimo slavo, nato a L’Aquila, col cognome che finisce “ic”, in maniera nemmeno troppo elegante.
Il mio è l’odio dello sprovveduto. L’odio di chi, per pigrizia immane, mai prende carta e penna e si mette a fare i conti. Sembra che un demone cretino mi induca per snobismo a mai fare quello che il buon senso suggerisce. Messere è troppo aulico per sporcarsi le dita con i conti della serva e scartabellare tra ricevute, fatture, consuntivi, spese e balle varie.
Spesso mi immagino aspettarlo tra i chiaro e lo scuro. Sbatterlo a terra. Immobilizzarlo e colpirlo fino al lasciarlo tramortito al suolo, lui, con quegli improbabili baffetti e la mosca da spadaccino fasullo. Gli starebbe proprio bene, ma…Ma cosa sarebbe di me dopo?
Le città di Mosè sono altrove nella storia e nella geografia delle passioni umane. Così preferisco la pazienza che la ricerca della giustizia insegna a costruire.

martedì 26 marzo 2013

Riempire...forse!

"Idealità e morale sono i mezzi migliori per riempire quel gran buco che si chiama anima"
(Robert Musil USQ)

L'anima come un immensa voragine che vorremmo a qualsiasi costo riempire...e poi? Una volta strafogata col tutto? Satura di inutile fino alla feccia?
Con il trascorrere degli anni ho imparato a prediligere il vuoto, invece. Vuoto e silenzio quando il mondo scade nel chiasso tonante e nelle grandi abbuffate.
Meglio un vuoto a rendere piuttosto che un vetro pieno di un liquore andato a male per dire che quanto riempiva quel recipiente me lo sono gustato negli anni!



sabato 9 marzo 2013

La scuola che vorremmo

immagine dal web (protesta!)

Le esperienze che si vivono da insegnanti, quando ci mettiamo la giusta attitudine, possono essere umanamente straordinarie (senza retorica).
In un momento di grave crisi come quello che siamo costretti a vivere, non è detto che le idee più stimolanti non possano arrivare dalla fantasia dei ragazzi.
Ammettiamolo! Le nostre classi sono sempre più difficili. La disciplina sembra essere stata dimenticata come l’idea di educazione. La didattica messa da parte, sostituita da una valanga di progetti spesso inutili e onerosi in materia di tempo e risorse.

La strutture scolastiche sono fatiscenti (e non solo al Sud). Gli arredi scolastici inadeguati. In una mia classe, alunni di seconda media, alcuni alti e corpulenti, sono costretti in banchi da scuola primaria inadatti per ogni tipo di attività (sulla stessa superficie affrontano il lavoro su tavole di arte e tecnica con risultati facilmente immaginabili). Altro? Il caldo infernale a causa di un impianto di riscaldamento desueto e ingestibile che divora metri cubi di gas metano senza un minimo criterio e razionalità nei consumi (poi educhiamo al risparmio!). Anche con nebbia e galaverna, fin dalle otto del mattino siamo costretti ad aprire le finestre per dare sollievo agli alunni, obbligati a rimanere in maglietta a maniche corte, oltre che ingollare litri d’acqua per placare l’arsura.
Con ambienti del genere, i soliti colleghi illuminati, sono convinti di ottenere il meglio! Per questo a scuola sei ore filate.

Ma loro, i ragazzi, che scuola vorrebbero?
Talvolta mi capita, lo confesso, di seguire l’ispirazione e catturare l’attimo.
Proprio ieri, venerdì 8 marzo (sic!), all’ultima ora (13-14!!!), in una seconda particolarmente vivace, il dibattito si è focalizzato sulla questione scuola. Non è un paradosso. Siamo partiti dall’idea di comunità. Cos’è? Quali sono le sue dinamiche?
Questa seconda è una classe che fa gruppo (lo sanno e ci marciano). Una classe che, se non tenuta, deborda in un rumore infernale (casino, come dicono loro). Ma se guidata, stupisce!
“La comunità è un luogo dove ti senti accolto!” La risposta di Asia. Un risveglio, per me, queste parole.
Loro sanno quello che vogliono, allora. Una scuola dove puoi stare bene. Dove alunni e docenti sono una comunità educativa e formativa. Dove le responsabilità vengono condivise nell’ottica di un bene comune in grado di far crescere ognuno secondo le proprie caratteristiche umane e potenzialità intellettuali.
Invece gli propiniamo modelli scolastici dove si parla solo di valutazione, dove si esercita il potere del voto in maniera ottusa, dove si riempiono i registri con romanzi di note senza sapere che quello che conta, nella correzione, è il saper costruire una relazione con i ragazzi, prima di bastonarli duramente con provvedimenti alla Pinocchio. Per non parlare del bullismo…Un fenomeno che ha contagiato anche qualche collega idiota!
Vorrebbero una scuola agile, dove sono gli alunni a cambiare classe e non gli insegnanti costretti a odissee quotidiane. L’aula di scienze dove il docente ti attende con tutto quanto necessita per la lezione. Dove il prof può lasciare il suo materiale evitando i cassetti loculi dove infiliamo di tutto e di più così che, quando arrivi a giugno, esplodono.
L’aula di lettere! Libri, anche se sembrano fuori moda. I Pc, le Lim, va bene! L’aula per le materie artistiche: grandi banchi, gli immancabili lavandini per sciacquare pennelli e piattini vari, lavarsi le mani dopo avere usato carboncini e tempere. Invece…Già detto e scritto: lo sfacelo.
Un luogo che accoglie, piuttosto che il mal di pancia quotidiano quando sai che devi affrontare lo spauracchio di chi ha poca dimestichezza con la responsabilità di ritrovarsi in cattedra. E credetemi…I concorsoni  (ma non li avevamo aboliti?) non risolveranno nulla, anzi…Metteranno in cattedra personaggi che con la scuola non hanno nulla da spartire!
Una comunità. Ecco cosa suggeriscono i nostri alunni. Regole poche e chiare, non un ginepraio di norme. Sostegno e risorse, dove le eccellenze non discriminano, ma liberano quello che necessita per il recupero delle carenze.
Un sogno?
No! Un cantiere da aprire.

lunedì 4 marzo 2013

Fenomenologia del blogger solitario

E' da settimane che non aggiorno il mio blog. Ne sono consapevole. Ho cominciato leggendo sempre meno i blog degli altri. Quelli di quanti se non li leggi tu per primo, loro non ti leggono affatto. E su questa faccenda mi sono messo a pensare. Quali relazioni saranno mai, da un punto di vista umano, quelle che sono tornate ad osservare l'antico adagio del do ut des?
Mi sono già fermato, ma la qualità delle relazioni che si intrecciano sul web è un interessante campo d'indagine. Dunque tranquilli, probabili lettori: non giudicherò nessuno a causa del personale modo di abitare la rete. Quello che mi interessa è capire le dinamiche che regolano quest'ingente massa di byte che si muove quotidianamente e il resto a dopo.

Per come ho impostato il titolo, quella che segue potrebbe apparire come una dotta disamina clinica. Niente affatto! Se di patologia saremo costretti a trattare, sarà dopo una lunga ed accurata, senza dimenticare gli inciampi fisiologici, quelli che rendono interessante ogni possibile discernimento.

Chi vivrà (spiritualmente parlando), vedrà!